Archivi dell’acqua salata. Stragi di migranti e culture pubbliche è un testo di Pamela Marelli, bresciana con una laurea in storia, un bagaglio di attivista antirazzista di lunga esperienza e una profonda cultura, visione, posizionamento femminista. Non si tratta di un libro di memoria, né di storia, né di narrativa: Archivi dell’acqua salata è un nutrimento di quello che l’autrice stessa definisce “parentela vitale” tra esseri umani. Una parentela che deve mettere fine “all’assurda opposizione tra persone in base al luogo di nascita, per preservare ciò che abbiamo in comune, quella necessità di salvarsi, di vivere vite sicure e degne, con la volontà di tenere insieme le differenze di chiunque nella lotta per migliorare questo mondo”.
Archivi dell’acqua salata è uno strumento utilissimo per chi fa lavoro storico e che quindi ben sa l’importanza di un archivio. Ma è un archivio non convenzionale, corporeo, emozionale, politico, un archivio in divenire, interdisciplinare, incompleto; un archivio composto da frammenti di episodi, di storie, di vite e dell’azione dell’immaginario collettivo e della cultura pubblica. Il testo ripercorre i maggiori naufragi di migranti dal 1990 al 2020, delinea un contesto storico attraverso la letteratura, l’arte e lo spettacolo.
Archivi dell’acqua salata è anche azione politica, è richiesta di giustizia sociale, è richiesta di riconoscimento di dignità delle persone che mettono in essere la libertà di movimento; è richiesta di pensiero e di pratiche politiche, oltre che di alleanze tra donne e uomini, valorizzando e mettendo in gioco le loro differenze.
Narrare delle persone morte in mare è una forma di scrittura storico-politica dolorosa che ripercorre recenti stragi, eventi emotivi e conflittuali, mettendoli al centro delle culture pubbliche. Archivi dell’acqua salata è un testo che racconta delle diverse forme di dominio che interagiscono nelle stragi marine e che contribuisce a formare una cultura pubblica plurale, dove i frammenti di vita narrati formano un intreccio di umanità su cui costruire radici comuni per una società solidale.
Abbiamo intervistato l’autrice.
Da dove trae origine questo lavoro e come è stata sviluppata l’idea iniziale?
P.M: Come preciso nell’introduzione al libro, il tutto nasce dal lavoro di archiviazione che ho conosciuto nelle scuole estive della “Società italiana delle letterate” e dell’associazione “Il giardino dei ciliegi” di Firenze. È questo che ha fatto scattare la scintilla sia del mio fuoco di passione per la storia, sia di quello della mia passione politica, di attivista femminista e antirazzista.
Alla scuola estiva del 2011 mi colpì profondamente l’intervento di Clotilde Barbarulli “Gli archivi dal mare salato”, che affrontò il tema dei naufragi di migranti nel Mediterraneo e delle politiche neoliberiste che portano a tali stragi. Di fronte ad un potere politico che tende a dominare il fenomeno migratorio espellendo, respingendo, deportando, Barbarulli tratteggiava un possibile archivio salato dal mare, contenente le storie di chi in quel mare si è perso e di chi, invece, ne è emerso, dei familiari rimasti là, e di chi nelle terre lambite da quel mare vive.
Dopo la scuola estiva, iniziai spontaneamente a raccogliere tracce delle stragi e dei naufragi
marini, collezionando articoli e notizie al riguardo. Evento spartiacque è stata la strage in mare (perché tali sono quelli che vengono definiti naufragi: delle stragi dovute alle politiche migratorie e non alla fatalità) dell’ottobre 2013 a Lampedusa, all’epoca la strage marina più grande dal secondo dopoguerra, nella quale morirono trecentosessantotto persone. Nell’ambito dei movimenti antirazzisti ci fu la chiamata sull’isola per scrivere dal basso una carta dei diritti: la Carta di Lampedusa. Vi partecipai e al ritorno portai l’esperienza anche a Brescia, con l’associazione “Diritti per tutti”.
E continuai a raccogliere immagini, articoli, frammenti di vite che mi fecero apparire sempre più evidente quanto peso abbia il modo in cui le storie e gli eventi vengono narrati. Costruire gli archivi salati diventava una necessità forte, un’urgenza politica. Volevo indagare come le stragi marine di migranti entrano a far parte delle culture pubbliche, in che modo affetti e sentimenti relativi a queste tragedie segnano l’immaginario collettivo, come si costruisce la dimensione sociale delle emozioni e, di conseguenza, la formazione di opinioni politiche.
Il termine archiviare come viene usato da Clotilde Barbarulli e anche da te ha una connotazione semantica diversa da quella comune, secondo cui archiviare equivale a dimenticare…
P.M: Sì, da storica so bene quanto sia prezioso un archivio, ma l’archivio cui vorrei dare il mio contributo è diverso, è vivente, è in divenire; è un’operazione politica atta a ricostruire come noi, persone che in questi anni si trovano a vivere in Italia, ci siamo raccontati la nostra storia. A partire dalla volontaria dimenticanza del nostro passato colonialista. La domanda era riuscire a dare uno sguardo d’insieme su ciò che ci restituisce questo archivio, che immagine rende degli “italiani brava gente”, per niente brava gente nella gestione dei naufragi e dell’immigrazione.
Nel testo si nota, negli anni, uno sviluppo nel processo di riconoscimento dei corpi: da un livello pressoché nullo, quando nemmeno venivano ripescati i corpi che si vedevano affiorare dal mare, ad una fase, nell’ultimo decennio, che si prefigge di risalire dal corpo recuperato alla sua storia, attraverso le analisi affidate al laboratorio di antropologia e odontologia forense dell’università di Milano diretto da Cristina Cattaneo. Ci riassumi questo percorso?
P.M: All’inizio, forse perché si trattava di naufragi piccoli, l’opinione pubblica li ignorava o non ne rimaneva impressionata. C’erano piccoli gesti di singole persone che si occupavano di recuperare oggetti o di dare degna sepoltura, come il custode del cimitero di Lampedusa di cui racconto nel libro. Ma poi, proprio da Lampedusa, è partito un movimento di cambio di prospettiva: la politica locale ha posto l’attenzione non più tanto sulle caratteristiche fisiche dei corpi recuperati, quanto sull’evento naufragio. Si è iniziato a ricostruire e a scrivere le storie di questi corpi, che erano stati donne e uomini di cui si sapeva poco o niente. Questo ha contribuito a restituire loro dignità umana. Insomma, dall’attenzione alla singola persona si è arrivati all’attenzione collettiva, e anche in questo passaggio l’evento cardine è stato il naufragio del 3 ottobre.
A livello politico i morti migranti ancor’oggi contano meno di altri morti, ma a livello culturale e sociale è insorta la necessità di costituire un immaginario collettivo attento alla dignità e al valore di ogni singola vita umana, creatosi grazie a numerosi libri, film, installazioni, mostre, monumenti.
Far ciò significa inoltre dare ai parenti sopravvissuti uno strumento di rielaborazione psicologica del lutto ma anche un modo per far valere alcuni diritti, di aver riconosciuto, per esempio, un risarcimento o una sorta di pensione di reversibilità.
Nel testo emerge chiaramente anche un altro meccanismo, che parte dalla strage, dallo scalpore momentaneo di media e opinione pubblica, per arrivare a promesse politiche e impegni legislativi che in realtà si sono sempre tradotti in nuove restrizioni alle vite migranti. Un meccanismo da scardinare?
P.M: Sì, con il libro vorrei anche smascherare l’ipocrisia che sta dietro, per esempio, alla concessione di cittadinanza ai morti del naufragio ma non ai sopravvissuti, che, anzi, vengono reclusi e spesso respinti. Voglio mettere sotto i riflettori gli atteggiamenti di tutte le parti politiche che, dopo poche lacrime di circostanza, non cambiano le leggi, non risolvono le cause delle stragi di migranti.
Dall’altro lato, da parte di molta società civile, c’è come una sorta di appiattimento in una posizione buonista-umanitaria, caritatevole e pietistica, che accoglie “questi poverini, questi disperati”, negando così l’esistenza stessa di un progetto migratorio, di un progetto di vita frutto di forte determinazione e volontà di autodeterminare le proprie vite.
Nel testo si nominano i “corpi migranti” e, verso la fine, i “corpi di missione”: due concetti che, associati, sono di una elevata potenza evocativa. Ci spieghi di che si tratta?
P.M: nell’azione migratoria il corpo è in gioco, e nel capitolo che ho intitolato “Corpi migranti” ho voluto mettere l’accento sullo sguardo di genere, sulla differenza ineludibile ma così spesso trascurata tra corpi di donne e corpi di uomini. Da un lato gli uomini migranti maschi nella narrazione corrente hanno connotazioni negative: sono quelli che entrano nei nostri territori per “portarci via il lavoro e stuprare le nostre donne”. Dall’altro le donne migranti sono invece accolte con favore nelle nostre case, perché si occupano di quel lavoro di cura che ancora la nostra società e la nostra politica non solo non riconoscono nel suo pieno valore, ma che non riescono nemmeno a dividere equamente tra donne e uomini. Non c’è una sanatoria che non coinvolga le persone, quasi tutte donne, che si dedicano alla cura.
Oltre a questi corpi, di donne e di uomini, ci sono quelli di chi, a partire dall’appello dello scrittore Sandro Veronesi, si mette in gioco fisicamente e mette in prima linea il proprio corpo contro la ferocia delle politiche migratorie, imbarcandosi con le navi delle Ong. In nome del diritto al soccorso. In nome di quella “parentela vitale” con cui termino il libro.
Archivi dell’acqua salata. Stragi di migranti e culture pubbliche di Pamela Marelli, Futura, 2021, 340 p., Brossura