Il più classico degli stereotipi che vede alcuni sport “fisici” associati solo agli atleti maschi viene contrastato da poche migliaia di “appassionate” che in Italia non vengono considerate professioniste, con numeri esigui rispetto a quanto accade negli Usa e in altri paesi europei. Ma qualcosa sta per cambiare, con la stagione 2022/2023.
Anche a Brescia l’equazione calcio = sport maschile nasce spontanea. Ma le società che puntano sull’estro e la caparbietà delle giovani calciatrici sono sempre più numerose e strutturate. Dal Brescia Calcio Femminile al Cortefranca, per esempio, che militano con successo in serie B. E che in alcuni casi vantano successi che le squadre maschili nostrane non hanno mai raggiunto.
Calcio femminile, nel mondo
Se il calcio femminile vanta un seguito eccezionale in molti Paesi europei, in Italia è ancora relegato ai margini. I numeri parlano chiaro.
In Germania le calciatrici tesserate sono un milione (negli USA 15 milioni), in Francia 90mila, mentre in Italia le tesserate Figc sono poco più di 30mila.
Poco più di 31mila dunque le “appassionate” di calcio. Sì, appassionate, perché in Italia un calciatore può essere professionista – se fa del suo sport il suo lavoro – ma una donna no. Solo dalla prossima stagione 2022/2023 il calcio femminile potrà essere, anche formalmente, molto più di un gioco.
I numeri sono ben diversi anche quando si tratta di compensi. La calciatrice Usa Alex Morgan – tra le più pagate al mondo – guadagna circa 500 mila euro l’anno. Poco meno si aggiudica ogni stagione la sua collega francese, Wende Renard, difensore centrale, che raggiunge quasi quota 350 mila euro. L’italiana più pagata, la juventina Barbara Bonansea, non supera i 40 mila euro a stagione.
Calciatori e Calciatrici, due realtà economiche (e non solo) molto diverse
I calciatori hanno veri e propri contratti di lavoro (milionari), con annessi e connessi (garanzie, bonus e assicurazioni).
Le calciatrici no. Per loro esistono solo accordi economici normati dalla FIGC, non possono avere vincoli contrattuali e rapporti di lavoro subordinati con le società calcistiche. Possono ricevere compensi con stringenti limiti economici – sono vietati gli importi superiori ai 30.658.000 euro lordi a stagione – rimpinguati da eventuali bonus e rimborsi (anch’essi sottoposti a limiti giornalieri inferiori ai 100 euro).
I calciatori della serie A italiana arrivano a guadagnare, all’anno, alcune decine di milioni di euro. Il compenso medio di un professionista ammonta a circa 2 milioni di euro.
Le calciatrici della serie A italiana non raggiungono nemmeno i 50 mila euro l’anno – lordi ovviamente. E la media dei compensi non supera i 15 mila euro.
Italia, un Paese di allenatori… maschilisti?
Un po’ sì.
Ancora oggi, l’associazione donna e calcio fa storcere il naso a molti “puristi” del genere (maschile). Non a caso a livello mediatico tutta l’attenzione è per gli uomini che rincorrono il pallone, mentre le calciatrici non sono degne di tanto seguito e clamore. Scarsa visibilità e progettualità ancora più carente e poco coerente, anche se le dinamiche, forse, stanno cambiando.
I numeri hanno un potere evocativo e rappresentativo – in questo caso – piuttosto potente ed eloquente. In Italia, le squadre maschili di calcio (tra professionisti, aspiranti tali e dilettanti) sono quasi 3.300, mentre quelle femminili non arrivano a 80.
Perché?
Un tema complesso. Una multi-fattorialità altrettanto complessa.
Il retaggio culturale, che vede il calcio come sport prettamente maschile, come “un gioco da duri e puri”, non aiuta. E nemmeno il pregiudizio, che reputa l’associazione donne e calcio alla stregua di un sacrilegio – per mancanza di sufficiente vigore fisico e resistenza mentale.
Quindi, ricapitolando. L’immaginario collettivo vuole che il calcio sia solo “roba da maschi” perché le donne non hanno fisico e psiche in grado di sopportarne le fatiche necessarie. Questo sempre secondo gli uomini.
E questo maschilismo sportivo ha radici più profonde di quanto si pensi. E non solo per quanto riguarda il calcio. Infatti, le donne nella storia hanno dovuto sgomitare parecchio non solo per conquistare un podio, ma addirittura per aggiudicarsi un posto ai blocchi di partenza.
Simbolo delle donne che non si arrendono agli stereotipi e ai limiti di genere è Kathy Switzer, statunitense che partecipò, come prima donna nella storia, con un stratagemma, alla maratona di Boston del 1967 (sì, non due secoli fa…).
E, se, nell’antica Grecia, c’erano i giochi riservati alle donne (Heraria, in onore della dea Hera), per avere una donna italiana protagonista dei giochi olimpici moderni abbiamo dovuto attendere gli anni ’70 – ’80 e l’atleta Sara Simeoni, che nel 1980 ha vinto le Olimpiadi di Mosca e ha detenuto per ben 36 anni il primato nel salto in alto (2,01 m).
Bresciane, grandi lavoratrici e grandi calciatrici?
Forse sì. Perché no?
La questione non è se ci sono grandi calciatrici, ma se possono esserlo. Se le bambine, come i loro amici, possono decidere di divertirsi (e poi chissà) calciando il pallone in una squadra. A Brescia sì. Con un po’ più difficoltà e meno scelta rispetto ai maschi, ma anche le piccole calciatrici possono sgambettare sul campo.
Certo, le squadre attive sono molte meno e molto meno capillari sul territorio.
Se per un bambino c’è solo l’imbarazzo della scelta: nella maggior parte dei casi gli basta uscire di casa per trovare un campo da calcio e una scuola pronta ad accoglierlo per insegnargli a fare goal, a marcare stretto l’avversario o a parare un rigore.
Per una bambina è tutta un’altra storia di opportunità. Recente l’episodio di una piccola bresciana appassionata di calcio respinta da una famosa scuola calcio della città per “carenza di strutture adeguate ad accoglierla”. Cioè dopo il clamore generato dal rifiuto della sua iscrizione – la mamma voleva far frequentare la scuola calcio sia a lei sia al fratello – la società dilettantistica si è difesa imputando alle nuove normative Covid e all’assenza di spogliatoi divisi per genere l’esclusione dell’aspirante calciatrice.
E i numeri degli sponsor ancora ridicoli, rispetto ai giri d’affari delle squadre più muscolose: basti pensare che il Brescia Calcio maschile negli ultimi vent’anni ha avuto bilanci con valori di produzione di decine di milioni di euro (anche se non sempre si sono chiusi in positivo, tutt’altro).
Ma, nonostante le diffidenze e le difficoltà, anche le bambine bresciane possono divertirsi sul rettangolo verde. Possono grazie alle società lungimiranti – più numerose di quanto si pensi in terra bresciana – che hanno incluso le calciatrici nella loro progettualità a breve e lungo termine.
Un esempio per tutti? Il Brescia Calcio Femminile, con la sua Presidente Clara Gorno. Che a livello di risultati ha fatto meglio di tutte le squadre maschili della nostra provincia, vincendo nella sua due Scudetti, tre Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane.
Una nuova Presidente che segna un cambio di passo nel panorama bresciano. Una donna alla guida di una squadra di donne. Un cambio di passo che non ha lasciato indifferenti molti, ma che farà cambiare idea a moltissimi. Certo, perché se pensare al calcio declinato al femminile sembra una contraddizione in termini per molti, ancora per troppi maschi del settore abbinare donne che giocano a calcio con donne che “giocano” a gestirlo è quasi oltraggioso.
Ma la Presidente Clara Gorno ha vinto le resistenze e ha deciso di affrontarle a testa alta. Non solo per dimostrare di essere la persona giusta per gestire una società calcistica. Ma soprattutto per dare il suo contributo alla crescita del calcio femminile, bresciano e non solo. Una crescita naturale e doverosa contro la discriminazione di genere e in ottica di garantire vere pari opportunità.
Pari opportunità di affacciarsi al calcio anche per le bambine. Perché come un bambino può sognare di ballare sul palco della Scala, una bambina può fare goal senza fare i salti mortali per trovare una squadra dove giocare.
La Presidente Gorno non ha dubbi. È fondamentale che ogni bambino, maschio o femmina abbia la stessa possibilità di sognare. Lei che ha accettato che questa nuova stimolante avventura “per dare anche a sua figlia, oltre che a suo figlio, l’opportunità di giocare a calcio”. Lei che vive la società come un’azienda in cui far quadrare i conti, ma anche come una piccola grande famiglia da far crescere (con un costante aumento delle tesserate) e coltivare con “gentilezza e rispetto, prendendosi cura del suo capitale umano”.
Gentilezza che l’ha portata, per esempio, a lasciare andare a Roma a giocare una calciatrice promettente, in contrasto con i propri interessi, ma in linea con i desideri della sua giovane promessa. Sì, perché numeri e giro d’affari, tra calcio maschile e calcio femminile, fanno la differenza, ma non solo. Non ci sono veri e propri rapporti di lavoro subordinati, non ci sono compensi stellari e nemmeno regole precise. Una giovane promessa, cresciuta nel vivaio bresciano, può inseguire il suo sogno della capitale non grazie a contrattazioni e accordi legali, ma grazie al buonsenso e alla gentilezza di una società dal volto (umano) femminile.
Ma cosa cambierà nella prossima stagione con il tanto atteso riconoscimento delle calciatrici come professioniste? Le speranze di miglioramento sono parecchie, le attese corpose. Dalle scuole calcio delle bambine – che si spera saranno sempre più numerose – fino alle società più importanti che garantiranno stipendi dignitosi alle calciatrici (con tutte le garanzie del caso). Sicuramente gli investimenti sul calcio femminile non potranno decuplicarsi nel giro di pochi mesi, ma la strada, seppur in salita, sembra tracciata e il futuro (non troppo prossimo) potrebbe essere sempre meno maschilista.